di Franco Bifani
La recente lettura delle parole del nostro inno nazionale, mi ha ispirato alcune considerazioni sul nostro vizio di tendere alla retorica ed all'abuso di certe rappresentazioni e categorie storiche ampollose, declamatorie, spesso autolesive della nostra immagine di popolo e nazione, ammesso e non concesso, poi, che essa esista ancora attualmente. Noi, del nostro inno, da più di 60 anni, preferiamo cantare, quando ce ne ricordiamo ancora le parole, solo la prima strofa, da “Fratelli d'Italia” a “L'Italia chiamò”. Difatti, già dalla seconda, cominciamo a darci la zappa sui denti e ad autocommiserarci; diventiamo calpesti,derisi e divisi da secoli., rivelando così un complesso di inferiorità, che data dalla caduta dell'Impero Romano, ci sentiamo sempre un volgo disperso che nome non ha. E' vero che ancora salsesi e fidentini, anzi, borgsàni, si deridono, che consideriamo i bussetani ed i reggiani teste quadre ed i piacentini dei “vilanòtti” agricoli dai braccini corti, ma insomma, laviamoci i panni sporchi in casa, senza sbandierare troppo queste debolezze di un campanilismo arcaico. E poi si continua con elmi di Scipio sulla testa, la vittoria che deve porgerci la chioma, la faccenda dei ragazzi d'Italia tutti Balilla: sono faccende che potevano andar bene ai tempi del Duce, al grido di “Vincere e vinceremo!”. Noto poi che noi italiani siamo particolarmente attirati dalle chiome muliebri, esse emanano evidentemente particolari feromoni; anche nel famoso “Inno di Garibaldi” di Mercantini ricorrono chiome, allori e spade sguainate. Un'altra parola ritorna in entrambi gli inni: Legnano. Anzi, nell'inno nazionale si afferma che “dall'Alpi a Sicilia dovunque è Legnano”. Ma quanti dei nostri baldi giovani sanno dov'è Legnano e che cosa mai vi accadde più di otto secoli fa, specie a latitudini inferiori a quelle dell'Appennino tosco-emiliano? E poi, forse è esagerato pensare che “ogn'uom di Ferruccio ha il core, ha la mano”, specie considerando che Ferruccio era stato finito da un Maramaldo calabrese, per cui si innescherebbero pericolose considerazioni e secolari pregiudizii sui nostri connazionali del Sud. Copriamo poi con un velo pietoso l'ultima strofa, con riferimenti a pratiche vampiresche di suzioni ematiche da parte di austriaci e cosacchi, che risente degli anni ed era forse valida 160 anni fa. Ci fu infatti qualcuno, tempo fa, che propose, ufficialmente, di aggiornare le parole dell'Inno con un “Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta, fratelli e sorelle, mettiamoci a festa. Dov'è la Vittoria? Che lieta ci arrida, che premii le sfide per la libertà!” Ma la variazione non è stata evidentemente ben accetta, sarebbe stato un po' come immettere vino nuovo in una botte di vino vecchio. Ricorre poi, per ben quattro volte, alla fine di ogni strofa, la parola “morte”, eredità di un romanticismo gotic-horror, tipico dell'800, altro elemento di autoflagellazione italica. A noi piace molto, viste le misere giornate che dobbiamo vivere nel Bel paese attuale, figurarci schiere di martiri che risorgono, come gli zombies della saga di Romero, dagli avelli, tombe che si scoperchiano, modello “Poltergeist”, morti che si levano ritti dalle bare, come nel ”Nosferatu” di Murnau, non si sa bene per andare dove e a che fare mai.
La recente lettura delle parole del nostro inno nazionale, mi ha ispirato alcune considerazioni sul nostro vizio di tendere alla retorica ed all'abuso di certe rappresentazioni e categorie storiche ampollose, declamatorie, spesso autolesive della nostra immagine di popolo e nazione, ammesso e non concesso, poi, che essa esista ancora attualmente. Noi, del nostro inno, da più di 60 anni, preferiamo cantare, quando ce ne ricordiamo ancora le parole, solo la prima strofa, da “Fratelli d'Italia” a “L'Italia chiamò”. Difatti, già dalla seconda, cominciamo a darci la zappa sui denti e ad autocommiserarci; diventiamo calpesti,derisi e divisi da secoli., rivelando così un complesso di inferiorità, che data dalla caduta dell'Impero Romano, ci sentiamo sempre un volgo disperso che nome non ha. E' vero che ancora salsesi e fidentini, anzi, borgsàni, si deridono, che consideriamo i bussetani ed i reggiani teste quadre ed i piacentini dei “vilanòtti” agricoli dai braccini corti, ma insomma, laviamoci i panni sporchi in casa, senza sbandierare troppo queste debolezze di un campanilismo arcaico. E poi si continua con elmi di Scipio sulla testa, la vittoria che deve porgerci la chioma, la faccenda dei ragazzi d'Italia tutti Balilla: sono faccende che potevano andar bene ai tempi del Duce, al grido di “Vincere e vinceremo!”. Noto poi che noi italiani siamo particolarmente attirati dalle chiome muliebri, esse emanano evidentemente particolari feromoni; anche nel famoso “Inno di Garibaldi” di Mercantini ricorrono chiome, allori e spade sguainate. Un'altra parola ritorna in entrambi gli inni: Legnano. Anzi, nell'inno nazionale si afferma che “dall'Alpi a Sicilia dovunque è Legnano”. Ma quanti dei nostri baldi giovani sanno dov'è Legnano e che cosa mai vi accadde più di otto secoli fa, specie a latitudini inferiori a quelle dell'Appennino tosco-emiliano? E poi, forse è esagerato pensare che “ogn'uom di Ferruccio ha il core, ha la mano”, specie considerando che Ferruccio era stato finito da un Maramaldo calabrese, per cui si innescherebbero pericolose considerazioni e secolari pregiudizii sui nostri connazionali del Sud. Copriamo poi con un velo pietoso l'ultima strofa, con riferimenti a pratiche vampiresche di suzioni ematiche da parte di austriaci e cosacchi, che risente degli anni ed era forse valida 160 anni fa. Ci fu infatti qualcuno, tempo fa, che propose, ufficialmente, di aggiornare le parole dell'Inno con un “Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta, fratelli e sorelle, mettiamoci a festa. Dov'è la Vittoria? Che lieta ci arrida, che premii le sfide per la libertà!” Ma la variazione non è stata evidentemente ben accetta, sarebbe stato un po' come immettere vino nuovo in una botte di vino vecchio. Ricorre poi, per ben quattro volte, alla fine di ogni strofa, la parola “morte”, eredità di un romanticismo gotic-horror, tipico dell'800, altro elemento di autoflagellazione italica. A noi piace molto, viste le misere giornate che dobbiamo vivere nel Bel paese attuale, figurarci schiere di martiri che risorgono, come gli zombies della saga di Romero, dagli avelli, tombe che si scoperchiano, modello “Poltergeist”, morti che si levano ritti dalle bare, come nel ”Nosferatu” di Murnau, non si sa bene per andare dove e a che fare mai.
1 commento:
quandi scrivi, non si capisce una mighia, stento a crederci tu sia sia stato insegnante di lettere, poveri alunni
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