martedì 28 febbraio 2012
mercoledì 8 febbraio 2012
Firma per ridurre gli stipendi dei parlamentari
Si è costituito il comitato promotore per la raccolta delle firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per l'adeguamento degli stipendi dei parlamentari italiani e regionali alle medie europee.
Il nostro appello a firmare per rendere più equi gli emolumenti di chi amministra la cosa pubblica·
Oggi i cittadini italiani sono chiamati a fare sacrifici che peseranno sia economicamente che in termini di diritti individuali, sulle loro condizioni di vita.
In questo momento i nostri rappresentanti in Parlamento e in tutte le altre istituzioni, non possono decidere sulle vite altrui, senza compartecipare ai sacrifici.
La credibilità della classe politica passa anche dalla loro volontà di non sottrarsi alle loro responsabilità di governo ed economiche sulle loro retribuzioni.
Il Parlamento è ancora immobile e non ha ancora legiferato in materia di “stipendi della classe politica”, a parte la rinuncia di alcuni aumenti per i parlamentari.
Per sollecitare il Parlamento a legiferare in materia con concretezza, senza furbizie e con la vera eliminazione dei privilegi economici e di utilizzo di servizi pubblici, oggi non più tollerabili,
i sottoscritti
Consiglieri Comunali di Fontanellato
Marco Faroldi e Franco Delendati
Consigliere Comunale di San Secondo Parmense
Massimiliano Dall’Argine
Consigliere Comunale di Soragna
Giovanni Rastelli
Consigliere Comunale di Trecasali
Guglielmo Dall’Asta
Consigliere Comunale di Roccabianca
Anita Capelli
Consigliere comunale di Busseto
Stefano Carosino
Consigliere comunale di Salsomaggiore Terme
Matteo Orlandi
Il cittadino del Comune di Fontevivo
Luca Costa
Il cittadino del Comune di Fidenza per conto di VoceLiberaFidenza
Tonino Ditaranto
Si rende disponibile per la raccolta firme su tutto il territorio provinciale il consigliere dell’Amministrazione Provinciale di Parma
Roberto Bernardini
Insieme ad altri cittadini a loro vicini sostengono la proposta di legge pubblicata sulla Gazzetta ufficiale n. 227 del 29.09.2011
ART.1 I Parlamentari italiani eletti al Senato della Repubblica, alla Camera dei deputati, il Presidente del Consiglio, i Ministri, i Consiglieri e gli Assessori regionali, provinciali e comunali, i governatori delle Regioni, i Presidenti delle Province, i Sindaci eletti dai cittadini, i funzionari nominati nelle aziende a partecipazione pubblica ed equiparati, non debbono percepire, a titolo di emolumenti, stipendi, indennità, tenuto conto del costo della vita e del potere reale di acquisto nell'Unione Europea, più della media aritmetica europea degli eletti degli altri Paesi dell'Unione per incarichi equivalenti.
Con questo appello si invitano tutti i cittadini a recarsi presso l’ufficio anagrafe del proprio Comune per sottoscrivere i moduli di raccolta firme entro la metà del mese di Marzo. Le firme saranno anche raccolte dai consiglieri medesimi sia personalmente che attraverso banchetti che si terranno in ogni Comune di appartenenza.
Per quanto riguarda Fidenza si informa che nelle prossime settimane sarà possibile firmare oltre che presso l'ufficio elettorale del comune, anche presso i banchetti che saranno allestiti al mercato e in piazza Garibaldi secondo calendario che pubblicheremo nei prossimi giorni. Chiunque fosse interessato alla partecipazione dei banchetti può inviare una mail a voceliberafidenza@libero.it
sabato 4 febbraio 2012
Agognata monotonia
Vedo sorgere albe e ai tramonti
il sole nascondersi dietro colline,
il vento sferzare passeggiate mattutine
ad accompagnare il mio vagare e
ripercorrere tappe di un cammino vissuto
alla continua ricerca di una monotonia
che mai io ebbi a conoscere.
Chi mai potrà cantare del mio perpetuo inseguire?
Chi mai potrà dipingere il mio peregrinare
alla ricerca di un qualcosa da fare?
Agognata monotonia quanto ti ho cercata,
desiderato posto fisso quanto mi sei mancato.
Eppure stolto non capivo di essere stato
un privilegiato
mercoledì 1 febbraio 2012
GLI ARRESTI NON TORNANO
Articolo scritto da Livio Pepino, il 29 gennaio, noto magistrato ora in pensione e fino al 2010 membro del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei giudici. In passato ha ricoperto i ruoli di consigliere di Cassazione, sostituto procuratore generale a Torino e presidente di Magistratura Democratica.
Di Livio Pepino, da Il Manifesto
L’emissione, nei giorni scorsi, della misura cautelare nei confronti di alcune decine di esponenti No Tav per fatti avvenuti sette mesi fa non è una forzatura soggettiva (e, anche per questo, sono sbagliate le polemiche e gli attacchi personali). È qualcosa di assai più grave: una tappa della trasformazione dell’intervento giudiziario da mezzo di accertamento e di perseguimento di responsabilità individuali (per definizione diversificate) a strumento per garantire l’ordine pubblico. Provo a spiegarmi con qualche esempio.
Primo. Non era in discussione – e non lo è, almeno per me – la necessità di effettuare le indagini necessarie ad accertare le responsabilità per reati commessi nel corso delle manifestazioni. Ma non è indifferente il modo in cui ciò è avvenuto. Cominciamo dalle misure cautelari. Non erano obbligatorie e, dunque, la loro emissione è stata una scelta discrezionale. Di più, i reati contestati consentono, in astratto e con il bilanciamento di aggravanti e attenuanti, la sospensione condizionale della pena o l’accesso immediato a misure alternative al carcere.
CONTINUA | PAGINA 4
Dunque la regola era procedere con gli indagati in condizioni di libertà. Perché, allora, la scelta dell’arresto?
L’ordinanza del giudice per le indagini preliminari lo dice quasi con candore: «I lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati; peraltro, il movimento No Tav ha pubblicamente preannunciato ulteriori iniziative per contrastare i lavori». L’indicazione del movimento No Tav e della sua azione di protesta come bersaglio della misura non potrebbe essere più esplicita.
Secondo. C’è nel diritto penale, e prima ancora nella civiltà giuridica, un principio di fondo secondo cui la responsabilità è personale e va graduata in base alle caratteristiche dei fatti. Nell’ordinanza, al contrario, il giudizio su ciò che è accaduto nei pressi del cantiere della Maddalena il 27 giugno e il 3 luglio dell’anno scorso si sovrappone in toto alle condotte individuali. Si parte, certo, dall’analisi dei fatti attribuiti a ciascuno ma poi, quasi subito, questo riferimento scompare. Così – avendo come riferimento alcuni frammenti degli scontri avvenuti in quelle giornate – si definiscono «gravi», al punto da giustificare l’arresto, condotte come «afferrare per un braccio un operatore di polizia allo scopo di ostacolarne l’avanzata» o «far parte del gruppo di manifestanti accorsi con una paratia mobile per ostruire il passaggio». Di più, queste condotte, accompagnate dal «permanere nel contesto degli scontri», comportano la contestazione di lesioni in danno di 50 agenti, dovendo ritenersi «superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano».
Terzo. Per valutare i fatti è necessario collocarli nel contesto in cui avvengono. E invece, nell’ordinanza, il contesto scompare. Sparisce la complessità di due giornate convulse in cui è accaduto di tutto: anche la commissione di reati ma, a fianco e contestualmente, una grande mobilitazione il cui fine non era aggredire le forze di polizia ma ostacolare l’apertura e disturbare la realizzazione di un cantiere ritenuto illegittimo. Spariscono gli “scontri” e tutto si riduce – a dispetto della realtà – a una aggressione collettiva e preordinata nei confronti un bersaglio considerato fisso, immobile e inattivo. Sparisce il lancio – fittissimo – di lacrimogeni, al punto che il possesso di fazzoletti, occhialini, maschere antigas, limoni e finanche farmaci viene considerato come «elemento fortemente indiziante la preordinazione e il perseguimento di un unico, comune, obiettivo» violento anziché come mezzo per proteggersi dal fumo e dai gas e che tutto è decontestualizzato con conseguente assimilazione di fatti diversi (mentre non sono, all’evidenza, la stessa cosa un gesto isolato di rabbia o reazione e una condotta aggressiva preordinata e protratta nel tempo).
Tanto basta per segnalare che la questione riguarda direttamente il rapporto tra conflitto sociale e giurisdizione e non solo – come si cerca di accreditare – alcune frange isolate ed estremiste.
Postato sul blog da Franco Bifani
Articolo scritto da Livio Pepino, il 29 gennaio, noto magistrato ora in pensione e fino al 2010 membro del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei giudici. In passato ha ricoperto i ruoli di consigliere di Cassazione, sostituto procuratore generale a Torino e presidente di Magistratura Democratica.
Di Livio Pepino, da Il Manifesto
L’emissione, nei giorni scorsi, della misura cautelare nei confronti di alcune decine di esponenti No Tav per fatti avvenuti sette mesi fa non è una forzatura soggettiva (e, anche per questo, sono sbagliate le polemiche e gli attacchi personali). È qualcosa di assai più grave: una tappa della trasformazione dell’intervento giudiziario da mezzo di accertamento e di perseguimento di responsabilità individuali (per definizione diversificate) a strumento per garantire l’ordine pubblico. Provo a spiegarmi con qualche esempio.
Primo. Non era in discussione – e non lo è, almeno per me – la necessità di effettuare le indagini necessarie ad accertare le responsabilità per reati commessi nel corso delle manifestazioni. Ma non è indifferente il modo in cui ciò è avvenuto. Cominciamo dalle misure cautelari. Non erano obbligatorie e, dunque, la loro emissione è stata una scelta discrezionale. Di più, i reati contestati consentono, in astratto e con il bilanciamento di aggravanti e attenuanti, la sospensione condizionale della pena o l’accesso immediato a misure alternative al carcere.
CONTINUA | PAGINA 4
Dunque la regola era procedere con gli indagati in condizioni di libertà. Perché, allora, la scelta dell’arresto?
L’ordinanza del giudice per le indagini preliminari lo dice quasi con candore: «I lavori per la costruzione della linea ferroviaria Torino-Lione proseguiranno almeno altri due anni; pertanto, non avrà fine, a breve termine, il contesto in cui gli episodi violenti sono maturati; peraltro, il movimento No Tav ha pubblicamente preannunciato ulteriori iniziative per contrastare i lavori». L’indicazione del movimento No Tav e della sua azione di protesta come bersaglio della misura non potrebbe essere più esplicita.
Secondo. C’è nel diritto penale, e prima ancora nella civiltà giuridica, un principio di fondo secondo cui la responsabilità è personale e va graduata in base alle caratteristiche dei fatti. Nell’ordinanza, al contrario, il giudizio su ciò che è accaduto nei pressi del cantiere della Maddalena il 27 giugno e il 3 luglio dell’anno scorso si sovrappone in toto alle condotte individuali. Si parte, certo, dall’analisi dei fatti attribuiti a ciascuno ma poi, quasi subito, questo riferimento scompare. Così – avendo come riferimento alcuni frammenti degli scontri avvenuti in quelle giornate – si definiscono «gravi», al punto da giustificare l’arresto, condotte come «afferrare per un braccio un operatore di polizia allo scopo di ostacolarne l’avanzata» o «far parte del gruppo di manifestanti accorsi con una paratia mobile per ostruire il passaggio». Di più, queste condotte, accompagnate dal «permanere nel contesto degli scontri», comportano la contestazione di lesioni in danno di 50 agenti, dovendo ritenersi «superflua l’individuazione dell’oggetto specifico che ha raggiunto ogni singolo appartenente alle forze dell’ordine rimasto ferito, come lo è l’individuazione del manifestante che l’ha lanciato, atteso che tutti i partecipanti agli scontri devono rispondere di tutti i reati (preventivati o anche solo prevedibili) commessi in quel frangente, nel luogo dove si trovavano».
Terzo. Per valutare i fatti è necessario collocarli nel contesto in cui avvengono. E invece, nell’ordinanza, il contesto scompare. Sparisce la complessità di due giornate convulse in cui è accaduto di tutto: anche la commissione di reati ma, a fianco e contestualmente, una grande mobilitazione il cui fine non era aggredire le forze di polizia ma ostacolare l’apertura e disturbare la realizzazione di un cantiere ritenuto illegittimo. Spariscono gli “scontri” e tutto si riduce – a dispetto della realtà – a una aggressione collettiva e preordinata nei confronti un bersaglio considerato fisso, immobile e inattivo. Sparisce il lancio – fittissimo – di lacrimogeni, al punto che il possesso di fazzoletti, occhialini, maschere antigas, limoni e finanche farmaci viene considerato come «elemento fortemente indiziante la preordinazione e il perseguimento di un unico, comune, obiettivo» violento anziché come mezzo per proteggersi dal fumo e dai gas e che tutto è decontestualizzato con conseguente assimilazione di fatti diversi (mentre non sono, all’evidenza, la stessa cosa un gesto isolato di rabbia o reazione e una condotta aggressiva preordinata e protratta nel tempo).
Tanto basta per segnalare che la questione riguarda direttamente il rapporto tra conflitto sociale e giurisdizione e non solo – come si cerca di accreditare – alcune frange isolate ed estremiste.
Postato sul blog da Franco Bifani
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