sabato 23 luglio 2011

Nel nome del padre, di Franco Bifani



Non è difficile diventare padre, bastano pochi attimi  trascorsi con la madre, nove mesi prima; essere un padre, questo è difficile, e non esistono corsi,  né di lunga né  di breve durata, e nemmeno accelerati o di recupero, per potere esercitare la paternità entro i limiti consentiti dalla legge, dalla società e, soprattutto, dai figli. Il padre, diceva, ad un certo punto, Ivan Karamazov, è poi sempre colui del quale si desidera la morte; e lo aveva scritto, secoli prima, anche Cecco Angiolieri: “S'io fosse morte andarei a mi' padre; s'i' fosse vita, non starei con lui”. Saggio è quel padre che conosce il proprio figliuolo; ma qual è il figliuolo che vuole veramente farsi conoscere da suo padre? Ho imparato invece che i padri non dovrebbero né vedere né sentire; questa è l'unica vera base della vita di famiglia.  Le gioie che ho provato, nella mia paternità,  sono così segrete, che non le conosco più, e i dispiaceri ed i timori, non oso nemmeno esprimerli. Forse ho oltrepassato i limiti,  sono andato sopra o sotto le righe, ben spesso, provocando l'incapacità delle mie figlie a badare a se stesse.  Forse, le ho solo annoiate… Quanti gli interrogativi, tante le risposte, se mai dovessero esisterne. Hanno iniziato con l'amarmi, poi mi hanno giudicato ed ora pare quasi che non mi perdonino qualche cosa, specie il fatto di essere il loro padre. Le mie sventure sono divenute più amare, il pensiero della Morte  si è invece mitigato, con il trascorrere del tempo. Purtroppo, si è sempre figli di qualcuno; i figli abitano le nostre case come estranei misteriosi, sappiamo quando sono entrati, ignoriamo il momento in cui prenderanno le loro cose e se ne andranno. Anzi, spesso si sono già allontanati,  per distanze incommensurabili, mentre noi ci illudiamo di averli  ancora lì, dinnanzi a noi. Forse aveva ragione Khalil Gibran, quando ricordava a tanti, soprattutto a me: “ I vostri figli non sono i vostri figli. Sono i figli e le figlie della fame che ha in se stessa la vita. Essi non vengono da voi, ma attraverso di voi, e non vi appartengono, benchè viviate insieme. Potete amarli, ma non costringerli ai vostri pensieri, poi che essi hanno i loro pensieri. Potete custodire i loro corpi, ma non le anime loro, poi che abitano in case future, che neppure in sogno potrete visitare”.  Mi sono risalite alla memoria le tesi, allora considerate  aberranti e blasfeme, di David Cooper, fondatore dell’antipsichiatria, che, allora studente 25enne di Psicologia, facevo anche mie. Per lui, era la famiglia il luogo ideale della funzione repressiva ed alienante. Questo tratto negativo dell’istituzione familiare, insieme a Cooper, io lo ritrovavo anche in altre istituzioni sociali, come la scuola, la fabbrica, la Chiesa, lo Stato, l’esercito, l’ospedale.  Ed allora, in un modo o nell’altro, come avevo fatto io, ai miei tempi, come ha fatto ora mia figlia  Marta,  su là, in Val di Susa, quel 3 di luglio,  c’è chi mette in opera tentativi di sfuggire alla dimensione alienante e conformistica del sistema sociale vigente, per ritrovare una realtà più autentica, per accrescere la propria consapevolezza individuale.  Cerco di trovare una magra, scheletrita consolazione nel proverbio  per il quale siamo tutti sulla stessa barca, per cui mal comune è mezzo gaudio; ma la mia non deve essere una barca, bensì un colabrodo arrugginito, e nei mali comuni non riesco a rinvenire  un  briciolo di serenità. Penso anche, eroicamente pessimista,  alla conte Leopardi, od alfierianamente volitivo, che le disgrazie mie sono più grandi degli ideali meschini e delle gioie immonde di certuni. Ma ritorno a credere che la mia depressione, come quella di ogni altro bipede pensante, rimanga sempre e soltanto il novembre dell’anima. Cerco di rimettermi, a sprazzi ed a tratti, in contatto con il mondo esterno, che mi pare sempre più popolato di gente spensierata, ma la sofferenza si insinua, si intrufola e me ne allontana. “La morte si sconta vivendo”, asseriva Ungaretti; ed io mi sento ancora più solo, sul cuor della terra, trafitto da un raggio maligno; ed è sempre più sera. Forse, però, sto diventando miope, ottuso ed egoista, mi rinchiudo troppo nel mio male oscuro, non ascolto, non comprendo e non vedo più quello degli altri. Ho iniziato la mia vita, tanto tempo fa, con parecchi dubbi, spero di approdare a qualche certezza; il dubbio è un omaggio alla speranza.
Franco Bifani

Nessun commento: