Dal festival di Sanremo ai campus americani il teorico dell'egemonia culturale è tornato di moda. Ecco perché
MASSIMILIANO PANARARI
A volte ritornano, da Sanremo all’etere degli urlanti speaker radiofonici dell’ultradestra americana. Non stiamo parlando di «ritornanti» o di zombie, ma di uno «spettro del comunismo» tornato con forza al centro della discussione politico-culturale, vale a dire Antonio Gramsci (1891-1937), le cui teorie, riadattate e ripensate, sono sopravvissute al benemerito crollo del socialismo reale (che, del resto, non l’aveva mai avuto in simpatia).Come dimostra anche la recentissima «Gramsci Renaissance» nella nazione che gli ha dato i natali: basti pensare alla lettura del suo Odio gli indifferenti (tratto da La Città futura) da parte delle due Iene Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu nel corso dell’ultimo «Festival della canzone italiana» di Sanremo, il luogo più nazionalpopolare che ci sia, e al successo della sua versione cartacea - entrata nella top ten delle classifiche della saggistica - divenuta un instant book per i tipi di Chiarelettere.
A guardare bene, però, il ritorno di attenzione dell’opinione pubblica nostrana per il pensatore e politico marxista trova la sua origine al di fuori dei patri confini, perché Gramsci, da molto tempo a questa parte, rappresenta l’intellettuale italiano di gran lunga più globalizzato, amato-odiato soprattutto nei Paesi anglosassoni. Lo evidenziano i volumi degli Studi gramsciani nel mondo delle Fondazione Istituto Gramsci (curati da Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru e pubblicati dal Mulino), che rivelano la penetrazione internazionale delle sue teorie, dal dibattito all’interno di un certo mondo arabo all’incidenza sulla «teologia nera» sudafricana e sul pensiero del vescovo Desmond Tutu. E lo mostra Gramsci globale (Odoya, pp. 174, euro 13), il libro di un giovane studioso dell’Università di Bologna, Michele Filippini, che racconta come il filosofo sardo-torinese sia divenuto una specie di icona pop della sinistra planetaria che, in quanto a diffusione ai quattro angoli del Villaggio globale, se la potrebbe battere alla grande anche con il Che.
Gramsci bandiera delle minoranze gay e nera, ampiamente utilizzato da Cornel West, l’intellettuale afroamericano per antonomasia (famoso a tal punto da avere interpretato il personaggio di Councillor West nel film Matrix Reloaded dei fratelli Wachowski), per pensare la questione razziale negli Stati Uniti (anche se gli rimprovera l’eccessiva rilevanza attribuita alla lotta di classe e un eccesso di «logocentrismo»). Gramsci reinterpretato dalla New Left britannica e dai suoi eredi, che ne riprendono la categoria di «egemonia» per analizzare la società contemporanea, descrivendo il thatcherismo nei termini di un blocco sociale (neo)conservatore capace di appropriarsi di concetti e visioni tipiche, sino a quel momento, della sinistra e della cultura popolare, e assimilandolo così alla nozione di «trasformismo» che il pensatore comunista applicava alla storia italiana post-risorgimentale.
Attraverso gli studi di un altro esponente celebre degli ambienti della Nuova sinistra, il sociologo inglesegiamaicano Stuart Hall, il marxismo antideterministico di Gramsci - per il quale la posizione di classe non corrisponde automaticamente all’ideologia (permettendo in questo modo di spiegare perché la classe operaia inglese era diventata così massicciamente razzista a partire dagli anni Ottanta) - assurge a riferimento essenziale del filone dei cultural studies impegnato nello studio delle subculture popolari, dell’industria culturale e dei condizionamenti esercitati dai mass media.
Per diventare, quindi, anche la stella polare dei postcolonial studies , che si occupano del confronto-scontro tra culture nelle nazioni nate dalla decolonizzazione; di qui, la straordinaria popolarità del filosofo nel subcontinente indiano, alle cui dottrine si rifarà lo storico Ranajit Guha, fondatore di quei subaltern studies che stanno all’origine degli studi postcoloniali. Non a caso, uno dei suoi allievi principali, Partha Chatterjee, ha spiegato la lotta di liberazione nazionale dell’India mediante le categorie usate da Gramsci a proposito del nostro Risorgimento, con Nehru comparato a Cavour e Gandhi a Mazzini.
Dal conflitto di classe si passa così alle cultural wars, quelle «guerre culturali» che ne fanno un indiziato speciale da parte della destra radicale Usa, che lo legge a volte in modo approfondito e altre piuttosto delirante e complottistico, come nel caso del notissimo conduttore radio Rush Limbaugh, del predicatore fondamentalista James Thornton e di certi anchorman di Fox dai quali viene descritto nei termini del «Grande Vecchio» di un progetto volto a scristianizzare l’America e a diffondervi il virus del relativismo. Mentre vari think tank neocon, allarmati dal peso del suo pensiero sulla teologia della liberazione latinoamericana, arrivano ad ascrivere a Gramsci la riconversione in senso multiculturalista e politicamente corretto degli intellettuali liberal e vedono nella sua penetrazione nei college la realizzazione dell’idea di usare l’università come un «moderno Principe», fino a sostenere - come fa nel 2009 Herbert London, direttore dell’Hudson Institute - che persino Obama ne sarebbe influenzato. È proprio così, uno spettro - gramsciano - si aggira per il pianeta globalizzato...
da un art.de La Stampa.it cultura
2 commenti:
Siamo curiosi di sapere quanti lettori capiranno qualcosa dell'articolo pubblicato.Suggeriamo una lettura più semplice, cioè ESTREMISMO MALATTIA INFANTILE DEL COMUNISMO (lenin).
Gli amici di tm
L'estremismo sarà pure una forma di infantilismo del comunismo ma la stupidità resta uguale sia che uno si dichiari estremista sia che faccia il moderato.
Gli amici degli amici di tm
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