Musica da cattedra
La musica è arte magica, di origini oscure e dionisiache, ed ha sempre qualche relazione con il demoniaco; essa mi scatena sentimenti incendiarii e ardenti, al calor bianco, e riesuma rabbie primordiali; essa deve farmi erompere dall'Id, dall'Inconscio, disarmonie discordi, suoni disordinatamente mescolati, deve provocarmi e trascinarmi alla trasumanazione, fuori dai labili confini epidermici del fisico che mi incapsula, a vita, nei limiti miserandi del corpo. Contrariamente a quanto scriveva il grande Shakespeare, essa, per me, deve suscitare oscuri moti dell'animo ed affetti tenebrosi come l'Erebo. Posseggo centinaia di CD, di musica rock e dintorni, non uno di musica classica. L’ho ascoltata, quest’ultima, per qualche anno, poi l’ho chiusa in un cassetto, dal quale forse mai più la ritirerò fuori. Del resto, anche Battiato a Beethoven preferiva l’insalata e a Vivaldi l’uva passa, che gli forniva più calorie Per me non contano le note, ma le sensazioni; una canzone, una musica, devono scaricarmi adrenalina nelle vene, nel cuore, nella mente, devono farmi uscire dai ristretti ambiti di spazio e tempo, nei quali mi ritrovo rinchiuso, a mio dispetto e controvoglia, e trasportarmi nell’Infinito, per frustarmi addosso scariche elettriche, bollenti ed accecanti, o trafiggermi con gelidi aghi glaciali. E’pura energia quella che deve penetrare prepotentemente nell’intimo del mio essere, provocandomi disarmonie e dissonanze. Deve lampeggiarmi trascrizioni paniche e dionisiache delle idee. La musica è il Tutto; come cantava Jim Morrison, when the music’s over, si spengono le luci dentro; solo essa mi fa sentire una sola cosa, con tutto e con tutti, al di là di ogni differenza, reale o supposta, esteriore od interiore, di fedi, culture e ideologie. Perchè è la voce di ogni dolore e di ogni piacere, delle scarse gioie e di tutti i drammi, in un linguaggio che non necessita di traduzioni. Con la musica mi ritrovo con esseri umani di altre epoche ed altri luoghi, del passato e del futuro, di questo atomo opaco del Male, e di altri mondi, dispersi nel Cosmo. Di ogni suono mi importa non tanto la struttura, ma il processo creativo che ne è stato alla base, le reazioni irriflesse sentimentali ed emotive, le tonalità emozionali, il rapporto tra la base affettiva e romantica e la simbolicità cui la musica stessa mi rinvia. Forse, anche per me, come asserisce la psicanalisi, la musica riveste un carattere di sublimazione delle pulsioni sessuali e mi rimanda al recupero di quelle esperienze prenatali alla base dei sogni, al distacco dalla realtà prosaica, misera, costrittiva, angusta; mi immerge nella mai sopita memoria ancestrale di una felice condizione perduta, sì, ma recuperabile, anche se solo per pochi attimi irripetibili. I suoni musicali hanno, per me, un valore catartico, mi portano a vivere vissuti difficilmente traducibili in linguaggio verbale, composti soprattutto da odori e colori, luci ed immagini, in una tensione psichica irripetibile ed inesprimibile. Con essa mi libero dei pesi nella stiva, dei tanti scheletri negli armadi, delle muffe nei cassetti, mi ritrovo a galleggiare nella mia più ignota autenticità. Esistono strette e precise relazioni tra prodotto musicale e realtà sociali e culturali che lo hanno creato e che in esso si esprimono come non mai. Per questo, quando ascolto la musica ed i canti dei popoli lontani e vicini, alle note lego ed aggrego le sembianze di chi canta e suona, del suo popolo, dei luoghi in cui abita ora o visse un tempo, divento uno di loro e piango anch’io lacrime e sangue per i blues, ardo del sole del deserto per le struggenti nenie mediorientali, emano sudori ed umori, mi si seccano le fauci per la sete. Le sovrumane note malinconiche dei popoli andini mi raccontano la loro storia tragica , così come i canti degli amerindi nordamericani mi sollevano alle praterie dei cieli. Canto, tra i neri africani, il rancore per i coloni bianchi, l’amore per le loro donne, principesse d’ebano, statue di regalità, mi vesto di arancio e respiro aria rarefatta tra le cantilene tibetane, mi annullo nel Nirvana degli antichi inni indiani in sanscrito. E, con una certa invidia da contrappasso dantesco, da povero prof in cattedra per 35 anni, tra dizionari, grammatiche, atlanti geografici e storici, tomi di letteratura, oh, quanto mi sarebbe piaciuto, quando li ascolto, aver potuto, per qualche giorno, rivestire la parte di qualche cantante maledetto di una band dark-punk! La musica deve essere ribelle; deve accendere persone senza età, come bombe al fosforo ed al napalm; perciò non mi sento vicino ai cavalier serventi, agli zerbini, ai giovin signori ed alle damine scollacciate che ascoltavano, sbadigliando, violini, viole e violoncelli, clavicembali ed arpe, con le orecchie coperte da parrucche infestate da pulci e pidocchi. Meglio un giorno da Marilyn Manson che cento da compositore di musica da camera del ‘700, con archi, flauti e fagotti, dopo decenni di consecutio temporum, ablativi assoluti, aoristi, esegesi, analisi connotative e denotative! Sulla falsariga di “Città vecchia” di De Andrè: “Vecchio professore, cosa sto cercando in quel CD, forse quello che solo mi può dare una lezione…”
Franco Bifani
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