Da Maddalena Rotundo riceviamo e volentieri pubblichiamo
L’ultima regione d’Italia, la più povera, quella in cui uomini e animali vivevano in promiscuità, poggiava sul giacimento petrolifero più grande d’Europa. Giacché non poteva disporre della risorsa, né opporsi per sempre alla sua estrazione, i danni erano insiti nella beffa. Lo Stato che ne deteneva la titolarità, in luogo di destinarla a riserva strategica e investire su centrali a energia alternativa, dopo una campagna di rilancio delle attività estrattive caldeggiata da Assomineraria, preferì sfruttarla, ufficialmente per affrancare il paese dalla dipendenza energetica dall’estero. La storia potrebbe riportare inoltre che la Regione, divenuta nel frattempo in materia di sfruttamento delle risorse interlocutore principale delle società estrattive e dello Stato, si fa trovare impreparata ad opporre qualsiasi sorta di obiezione, che almeno avrebbe permesso di prendere un po’ di tempo, in attesa che i derivati del petrolio divenissero oggetti da museo. Lo Stato al contrario si affretta a facilitarsi l’acquisizione del petrolio lucano con il decreto 625/96, trascurando di riflettere sul fatto - ma era chiedere troppo- che è la disponibilità di idrocarburi a impedire la diffusione di tecnologie alternative. Intanto la condizione di perenne necessità occupazionale in cui versa la regione incoraggia alla fine degli anni ‘90 a considerare il petrolio una svolta epocale e una via d’uscita dal sottosviluppo. Il ruolo della cittadinanza , a questo punto della cronaca, non appare storicamente rilevante, in quanto essa si fa velocemente convincere dalla prospettiva dell’ afflusso di soldi.
Oggi, mentre il volume delle estrazioni aumenta, il bilancio dello sviluppo è negativo, sulle matrici ambientali ci sono scuole di pensiero e appare chiaro che un freno al saccheggio del territorio fosse doveroso. Il peccato originale che grava sulla situazione attuale è che essa non è la sintesi di posizioni diverse, tuttavia non si può dire che le popolazioni non abbiano condiviso la responsabilità della scelta politica. Nel momento in cui si sono recate alle urne, più volte nel corso degli anni, determinando la vittoria degli stessi hanno esplicitamente formulato un invito a continuare sulla strada intrapresa, nonostante alcuni movimenti abbiano tentato di aprire un dibattito sulle questioni ambientali e i rischi connessi alle estrazioni, e indicassero al governo regionale un freno a nuovi sondaggi. L’ adesione alle scelte del governo, oltre che sulla convinzione che si dovesse offrire un’occasione a questa terra, è basata su una cattiva informazione riguardante gli effettivi vantaggi, nonché su una certa comunanza di idee dei soggetti in campo: parti politiche, imprenditoria, enti e perfino associazioni ambientaliste, tutti di fatto incapaci di distinguersi dal pensiero unico che si è affermato in questi anni : un modesto sacrificio del territorio in cambio di un mirabolante sviluppo. Intanto dello sviluppo promesso vediamo per adesso i risvolti negativi. Esso non è il prodotto del lavoro e del progresso espresso dal nostro territorio. Non stiamo utilizzando le nostre risorse incanalate in un processo di produzione, capace di determinare ulteriore ricchezza, ma proventi in denaro che ci vengono dalle stesse, come risarcimento per un danno che accettiamo a monte.
Che i cittadini non siano correttamente informati sembrerebbe doversi addebitare alla loro cattiva volontà, se non fosse che da anni, in tutto il mondo, è fatto esplicito invito ai governi di coinvolgere e informare i vari soggetti sul territorio prima di operare scelte di sviluppo che incidano sull’ambiente. Guardando oltre il petrolio, noti che tutta la politica ambientale è improntata ad un’adesione piuttosto superficiale ai dettami internazionali sullo sviluppo sostenibile. Uno è portato a credere che noi poveri non possiamo concedercene il lusso. Si insinua l’idea che il discorso sullo sviluppo sostenibile, come elaborato nel summit di Rio del 1992, non si coniughi con le stesse modalità in tutto il mondo, e che per noi debba porsi diversamente. Per molti anni si è pensato erroneamente che solo dove c’è grande sviluppo industriale possano esserci problemi ambientali indotti da comportamenti antropici e si è diffusa la convinzione che l’ emergenza occupazionale possa mettere l’ambiente in secondo piano. La questione è articolata e include concetti come il rispetto dei diritti delle popolazioni e la giustizia sociale, che spesso sono disattesi dalle ordinarie politiche del territorio o riconosciuti solo sulla carta. L’idea di fondo di queste convenzioni transnazionali poggia su uno sforzo di realismo e operatività, ed è quella che i portatori di interessi debbano tenersi in considerazione, anche quando non hanno l’effettiva forza politica per essere rappresentati. Potrebbe darsi per esempio, in un qualche posto del mondo, che una minoranza di cittadini abbia una consapevolezza maggiore delle problematiche ambientali connesse allo sviluppo di quella che posseggano mediamente gli eletti preposti a prendere decisioni, e che la classe politica però sia saldamente insediata in virtù di quella generale ignoranza intorno alle questioni topiche, e che goda di molto consenso. Fu per arginare queste situazioni, potenzialmente pericolose per il pianeta, che nella Conferenza di Rio fu concepito lo strumento dell’Agenda, rivolta alle più piccole entità locali come città, province e regioni, perché si ponessero per il 21esimo secolo obiettivi operativi, concilianti le istanze di sviluppo con la conservazione del territorio nello specifico delle realtà territoriali. Ma le proposte dell’ Agenda 21 non potevano essere autenticamente recepite lì dove questa conciliazione tra sviluppo e ambiente si vuole stabilita a priori, da una volontà politica antecedente a ogni possibile confronto tra diverse posizioni, e dove la politica, ritenendosi rappresentativa, difende strenuamente le sue posizioni e non ha interesse a informare i cittadini sui rischi che essi corrono. Inoltre finché le popolazioni saranno portatrici dell’istanza della sopravvivenza non potranno concepire spostamenti spontanei della sensibilità su ragioni altrettanto nobili, in una specie di circolo vizioso difficile da spezzare.
Un aspetto che pone la nostra regione in una posizione di atipicità è che i soggetti in campo con i quali conciliare una mediazione spesso non sono piccole industrie dagli interessi ricadenti sul territorio e con cui trattare accordi volontari per salvaguardare il profitto, l’ambiente, la salute e il risparmio sui costi sociali e finanziari dell’inquinamento, ma giganti industriali, la cui logica della colonizzazione e dello sfruttamento rende poco propensi a trattare questioni sollevate da popolazioni in preda alle ansie collettive. Soprattutto se questi industriali dimorano nella convinzione di aver negoziato una volta per tutte i risarcimenti per i danni al territorio, con accordi ad esso favorevoli. Davanti a questi interessi la politica ha lasciato i cittadini soli in prima linea a difendere i loro diritti, dimostrando di avere più a cuore la sintonia con i potentati economici che le voci di coloro di cui dovrebbe rappresentare le istanze. Che dovevano essere di sviluppo sì, ma sostenibile.
Le proposte di Agenda 21 quindi, proprio perché pensate per una dialettica di posizioni, sembrano di conseguenza impraticabili in una regione dove trionfa il pensiero unico, la cultura ambientale dei cittadini è carente , la politica non ha interesse a informare il territorio, c’è grande indifferenza per questioni che apparentemente non toccano il quotidiano della gente e ci si pone come obiettivo prioritario l’occupazione, annosa questione che mette in ombra tutte le altre . Per cui la questione ambientale può rimanere relegata alle domeniche in bicicletta.
Tutta la logica di uno sviluppo che non può andare troppo per il sottile si è esemplarmente espressa nella vicenda dell’inceneritore Fenice, parte di un pacchetto prendere o lasciare, in quanto inscindibile dalla fabbrica Fiat : niente Fenice niente Fiat. E’un impianto la cui presenza viene tuttora giustificata come necessaria all’incenerimento dei rifiuti della Basilicata – dove la raccolta differenziata non è mai decollata- quando invece più della metà del rifiuto incenerito proviene da altri stabilimenti industriali d’ Italia. Per il trattamento di questi rifiuti, anche sanitari e classificati come pericolosi, l’inceneritore impiega migliaia di metri cubi d’ acqua, poi sversati nel fiume Ofanto, e deposita le ceneri rese inerti nelle discariche regionali, oltre a emettere ovviamente sostanze nell’aria. Non si può proprio dire che sia una presenza innocua sul nostro territorio, e che lo lasci intatto così come lo trova. L’adozione di un adeguato piano dei rifiuti renderebbe invece la regione del tutto indipendente dall’inceneritore, ed è quello che ci si aspetterebbe da una vera politica ambientale. I ritardi nell’adozione della raccolta differenziata come soluzione per lo smaltimento e la presenza dell’inceneritore sono strettamente collegati. All’epoca della realizzazione di Fenice l’opinione corrente considerava gli inceneritori salvatori dell’ambiente nonché validi mezzi di produzione di energia, ma i cittadini non erano a conoscenza del reale impatto ambientale dell’impianto. Il dibattito che oggi alcune associazioni tentano di aprire sugli inceneritori ruota intorno alle tipologie dei contaminanti che rilasciano e alle soglie di contaminazione stabilite per legge, al di sotto delle quali essi sono ancora reputati soluzioni ideali atte a favorire uno sviluppo sostenibile, capaci di determinare un tipo di inquinamento tollerabile quanto quello di un grosso agglomerato industriale, ma che gli esperti ritengono comunque pericoloso per la salute. Ma questo è il punto: fatte salve le leggi, dovrebbero essere i cittadini a decidere il grado di deterioramento dell’ambiente e di rischio per la propria salute che si è disposti ad accettare in cambio del lavoro e dello sviluppo. E il livello di inquinamento che la nostra politica è disposta ad accettare è molto alto, se si è consentito all’inceneritore di funzionare per alcuni anni mentre inquinava una falda, oltre i limiti di legge. Ma nel momento in cui matureranno le condizioni per fare a meno di Fenice, la politica dovrebbe essere libera di rinegoziare accordi e autorizzazioni, perché questo suggerirebbero i principi delle convenzioni internazionali, invece si preferisce diffondere la vulgata della sua ineluttabile irrevocabilità.
Anche per quanto riguarda Fenice dunque la Regione si è trovata di fronte al dilemma tra lavoro e ambiente e ha fatto una scelta. (Si dovrebbe anche riflettere su un tipo di sviluppo che accetta di sottostare a forme di ricatto, e chiedersi se esso non diventi insostenibile, prima di tutto eticamente.) Le scelte tuttavia, per quanto difficili, si rivelano responsabili se tutto avviene nella legalità, irresponsabili quando alle spalle dei cittadini si permettono reati. Da intercettazioni telefoniche di colloqui tra imprenditori, utilizzate dagli inquirenti in inchieste nel Lazio, si evince che viene portato nella nostra regione anche un tipo di rifiuto industriale non autorizzato perché “ lì nessuno controlla”. L’incenerimento di certi rifiuti produce diossina e furani e altre sostanze pericolose. Nel caso fossero inceneriti rifiuti non autorizzati nessuno se ne accorgerebbe, in quanto non si pensa di ricercare nell’aria o nell’acqua o nel latte degli animali sostanze prodotte da rifiuti che ufficialmente non ci sono. Ai cittadini viene dato a intendere che tutto questo sia compatibile con lo sviluppo. La pervicace volontà di negare l’evidenza degli inquinamenti e la pericolosità dell’inceneritore alla luce di una dettagliata letteratura che si preferisce ignorare, è una precisa linea politica, ancora per molti versi incomprensibile. La stessa che ha indotto le aziende di monitoraggio ambientale alla ricerca di un precario equilibrio tra la necessità di mantenersi buone relazioni politiche e l’ esigenza morale e professionale di dire come stanno le cose.
Nel caos delle notizie contrastanti, l’informazione che i cittadini più attenti tentano faticosamente di diffondere è bollata come allarmismo, un atteggiamento questo che rivela forse il timore di ammettere voci dissonanti, elettoralmente controproducenti.
La politica, il mondo del sindacalismo, dei rappresentanti di categoria e gli imprenditori dell’energia non hanno interesse di fare opera di vera divulgazione sull’ambiente. Nella programmazione regionale sull’utilizzo delle risorse energetiche per esempio, si esprime l’intenzione di dare grande diffusione alla biomassa, ma il programma non prevede di informare correttamente i cittadini del fatto che le centrali di quel tipo rischiano di diventare a tutti gli effetti degli inceneritori, nei cui forni potrà essere buttato di tutto. Nemmeno si sa che i cementifici e altri tipi di impianti industriali, ai quali viene data l’autorizzazione di bruciare derivati della spazzatura, possono potenzialmente trasformarsi in inceneritori fuori da ogni controllo, alimentati a basso prezzo con “carburanti” pericolosi forniti dalle ecomafie. I cittadini insomma nel valutare i pro e i contro non sono parte attiva e subiscono le decisioni di una classe politica appartenente a un altro mondo e a un altro tempo, quello in cui il progresso tecnologico non doveva tener conto di altre considerazioni, se non quella della sua illimitata espansione. In tutta la regione si moltiplicano i siti inquinati per sversamento o depositi illeciti, per mancate bonifiche, per comportamenti irresponsabili e superficiali, per abuso di prodotti chimici, in uno scenario che è difficile non definire allarmante e che rende inadempiente la nostra regione rispetto a tutta una serie di obiettivi europei per l’ambiente che vanno dalla tutela della biodiversità, alla difesa del territorio nei confronti dei tanti inquinamenti, dell’erosione, degli smottamenti, delle alluvioni fino al contenimento dei gas serra. Ma è la sproporzione tra danni e benefici che rende sempre più rilevante la questione ambientale in Basilicata.
Un esempio che dimostra come la politica ma anche addetti del settore siano ormai incapaci di curare gli aspetti etici e sociali dello sviluppo sostenibile : una decina di anni fa la città di Potenza aderisce alla Carta di Allborg, la carta delle città europee sostenibili, e si sente in dovere di mettere in campo un tentativo di stilare un’Agenda 21 della città, coinvolgendo le forze sociali ma soprattutto le scuole. Poderoso tentativo quanto pleonastico, a tratti dannoso. Prima di tutto rivolgendosi al mondo della scuola travisa le ragioni di fondo dell’Agenda i cui obiettivi mirerebbero principalmente a facilitare soluzioni negoziate tra soggetti economici e cittadinanza, non a fare retorica ecologista degli spazi verdi presso i minori. In secondo luogo l’Agenda mira a consolidare una prassi di negoziazione, non è l’ ennesimo motivo per dare fondo a denari, allestendo una tantum una bella manifestazione. Una prova lampante di quanto questo volenteroso tentativo sia stato scorretto sul piano della trasmissione dei contenuti è che in uno dei test di feed back distribuiti ai malcapitati alla domanda “ Qual è il sistema migliore per smaltire i rifiuti ?” le alternative proposte erano a) le discariche b) gli inceneritori. Gli intervistati si dirottano sulla seconda, evidentemente in coerenza con l’idea che gli inceneritori sono amici dell’ambiente, trasmessa loro durante i forum. La soluzione della raccolta differenziata non viene nemmeno indicata. Siccome il ciclo integrato dei rifiuti di Potenza non la prevedeva non si è nemmeno osato insinuarla come risposta alternativa adeguata, perché non si suggerisse una qualche mancanza della politica ambientale della città. Che però aveva firmato la Carta di Allborg. Sono passati dieci anni e grazie alla precisa volontà politica di mantenere gli inceneritori, di raccolta differenziata non si può ancora parlare, né a Potenza né nel resto della regione.
Unitamente agli altri menzionati atteggiamenti contrari all’ambiente, che spesso rasentano l’illegalità, sono anche questi ritardi a essere imbarazzanti, per una regione che non perde occasione di propagandare a parole il suo europeismo.
Maddalena Rotundo
30-10-2011
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