sabato 10 marzo 2012

Perché i poveri non possono permettersi uno sviluppo sostenibile- di Maddalena Rotundo




Da Maddalena Rotundo riceviamo e volentieri pubblichiamo

L’ultima regione d’Italia, la più povera,  quella in cui  uomini e  animali vivevano in promiscuità, poggiava sul giacimento petrolifero più grande d’Europa. Giacché non poteva disporre della risorsa, né opporsi per sempre alla sua estrazione, i danni  erano insiti nella beffa.  Lo Stato  che ne  deteneva  la titolarità, in luogo di  destinarla    a riserva  strategica  e investire su centrali a  energia alternativa,  dopo  una campagna di rilancio delle attività estrattive caldeggiata da Assomineraria, preferì  sfruttarla,   ufficialmente  per affrancare il paese dalla dipendenza energetica dall’estero.  La storia  potrebbe riportare inoltre che   la Regione, divenuta nel frattempo   in materia di sfruttamento delle risorse   interlocutore principale   delle società estrattive e dello Stato, si   fa trovare impreparata ad opporre qualsiasi  sorta di obiezione, che  almeno avrebbe permesso di  prendere   un po’  di tempo, in attesa   che i derivati del petrolio divenissero oggetti da museo. Lo Stato al contrario  si affretta a  facilitarsi l’acquisizione del petrolio lucano con il decreto 625/96, trascurando  di riflettere sul fatto - ma era chiedere troppo-     che  è la disponibilità di idrocarburi a impedire la diffusione di tecnologie alternative.  Intanto  la condizione  di perenne necessità occupazionale  in cui versa la regione     incoraggia alla fine degli anni ‘90 a considerare   il petrolio  una     svolta epocale e una via d’uscita dal sottosviluppo.    Il ruolo della cittadinanza ,  a questo punto della cronaca, non appare storicamente rilevante, in quanto essa  si fa     velocemente    convincere   dalla   prospettiva dell’ afflusso di soldi.

 Oggi,  mentre il volume delle estrazioni aumenta,   il bilancio dello sviluppo  è  negativo,    sulle matrici ambientali  ci sono scuole di pensiero e  appare  chiaro che un freno al saccheggio del territorio    fosse    doveroso.  Il  peccato originale  che grava sulla  situazione attuale  è che essa non è  la sintesi  di posizioni  diverse,   tuttavia    non si può dire      che     le popolazioni  non  abbiano  condiviso la responsabilità della scelta politica.    Nel momento in cui si sono recate alle urne, più volte nel corso degli anni, determinando  la vittoria degli stessi  hanno esplicitamente   formulato   un invito a continuare sulla strada intrapresa, nonostante  alcuni  movimenti abbiano tentato di aprire un  dibattito sulle questioni ambientali e i rischi connessi alle estrazioni,  e  indicassero al governo regionale un freno a nuovi sondaggi.  L’  adesione  alle scelte del governo, oltre che sulla convinzione che si   dovesse offrire un’occasione a questa terra, è basata   su una cattiva informazione riguardante gli  effettivi vantaggi, nonché su  una  certa comunanza di idee  dei soggetti  in campo: parti politiche, imprenditoria, enti e perfino associazioni ambientaliste,   tutti di fatto  incapaci di  distinguersi  dal  pensiero unico  che si è affermato in questi anni :  un modesto  sacrificio  del territorio in cambio di un mirabolante  sviluppo. Intanto dello sviluppo promesso vediamo per adesso  i risvolti  negativi.  Esso   non è   il prodotto del lavoro e del progresso espresso dal nostro territorio.  Non stiamo utilizzando le nostre risorse incanalate in un  processo  di produzione,   capace di determinare ulteriore ricchezza,   ma proventi in denaro che ci vengono dalle stesse, come risarcimento per un danno che accettiamo a monte.
Che i cittadini non siano   correttamente informati sembrerebbe  doversi  addebitare  alla loro cattiva volontà, se non fosse che  da anni,  in tutto il mondo, è fatto esplicito invito ai governi di  coinvolgere e informare  i vari soggetti sul territorio prima di operare  scelte di sviluppo  che  incidano sull’ambiente. Guardando  oltre il petrolio,  noti che tutta la politica ambientale   è improntata  ad un’adesione piuttosto superficiale ai dettami internazionali  sullo sviluppo sostenibile.   Uno è  portato a credere che   noi poveri non possiamo concedercene   il lusso.   Si  insinua l’idea   che   il discorso sullo sviluppo sostenibile,     come elaborato nel summit di Rio del 1992,  non si coniughi con le stesse modalità in tutto il mondo, e  che per noi debba  porsi  diversamente. Per molti anni  si è pensato  erroneamente   che solo dove c’è grande sviluppo industriale  possano esserci problemi ambientali indotti da comportamenti antropici e  si è diffusa la convinzione  che   l’ emergenza occupazionale  possa mettere l’ambiente  in secondo piano. La questione  è articolata  e include concetti come   il rispetto dei diritti delle popolazioni e la giustizia sociale, che spesso sono  disattesi  dalle ordinarie  politiche del territorio o  riconosciuti solo sulla carta.  L’idea di fondo di queste convenzioni transnazionali poggia su uno sforzo di realismo e operatività, ed è quella che i  portatori di interessi  debbano tenersi in considerazione, anche quando non hanno l’effettiva forza politica per essere rappresentati.  Potrebbe darsi per esempio,  in un qualche posto del mondo, che  una minoranza di cittadini abbia  una consapevolezza  maggiore delle problematiche  ambientali connesse allo sviluppo  di quella che posseggano mediamente  gli eletti  preposti a prendere decisioni,  e che la classe politica però  sia saldamente insediata in virtù di quella generale ignoranza  intorno alle questioni topiche, e che goda di molto consenso.  Fu per arginare   queste  situazioni, potenzialmente pericolose per il pianeta,   che  nella Conferenza di Rio fu concepito lo strumento dell’Agenda,  rivolta  alle più piccole  entità locali come  città,  province e regioni, perché si ponessero per il   21esimo secolo obiettivi operativi, concilianti le istanze di sviluppo con la conservazione del territorio nello specifico delle realtà territoriali.   Ma le proposte dell’ Agenda 21   non   potevano  essere  autenticamente recepite  lì dove  questa conciliazione  tra sviluppo e ambiente si vuole   stabilita a priori,   da una  volontà politica   antecedente a ogni possibile confronto  tra diverse posizioni,  e dove la politica, ritenendosi  rappresentativa,  difende strenuamente  le sue  posizioni e   non ha interesse a informare i cittadini   sui rischi che essi  corrono. Inoltre finché  le popolazioni saranno portatrici dell’istanza  della sopravvivenza   non potranno concepire  spostamenti  spontanei  della sensibilità su ragioni altrettanto nobili,  in una specie di circolo vizioso difficile da  spezzare. 
Un  aspetto  che pone la nostra regione  in una posizione di atipicità è che i soggetti  in campo con i quali conciliare una mediazione spesso  non sono  piccole industrie  dagli interessi ricadenti sul territorio  e con cui trattare accordi volontari  per salvaguardare  il profitto, l’ambiente,   la salute e il risparmio sui costi sociali e finanziari dell’inquinamento, ma giganti industriali, la cui  logica della colonizzazione e dello sfruttamento rende poco propensi a trattare  questioni   sollevate   da popolazioni in preda alle ansie collettive. Soprattutto se questi industriali  dimorano nella convinzione  di aver negoziato una volta per tutte i risarcimenti per i danni al territorio, con accordi ad esso favorevoli.   Davanti a questi interessi la politica  ha lasciato i cittadini soli in prima linea    a difendere i loro diritti, dimostrando  di avere più a cuore    la sintonia   con  i potentati economici   che le voci di  coloro di cui dovrebbe rappresentare le istanze. Che dovevano  essere   di sviluppo sì,  ma sostenibile.
 Le proposte di Agenda 21 quindi, proprio perché  pensate  per una  dialettica di  posizioni,    sembrano  di  conseguenza  impraticabili in una regione dove   trionfa il pensiero unico,  la cultura ambientale dei  cittadini è carente , la politica non ha interesse a  informare il territorio,  c’è grande indifferenza  per questioni che apparentemente non toccano  il quotidiano della gente  e ci si pone come obiettivo prioritario l’occupazione, annosa questione che mette in ombra tutte le altre . Per cui la questione ambientale può rimanere relegata alle domeniche in bicicletta.
Tutta la logica di uno  sviluppo che non può andare troppo per il sottile   si è  esemplarmente espressa nella vicenda dell’inceneritore Fenice,  parte di un pacchetto prendere o lasciare, in quanto inscindibile  dalla fabbrica   Fiat : niente Fenice niente Fiat.  E’un impianto la cui presenza  viene tuttora giustificata  come necessaria    all’incenerimento dei rifiuti della Basilicata – dove   la raccolta differenziata non è mai decollata-   quando invece più della metà del rifiuto incenerito  proviene da altri  stabilimenti industriali d’ Italia.  Per il trattamento di questi  rifiuti, anche sanitari e    classificati come pericolosi,  l’inceneritore impiega   migliaia di metri cubi d’ acqua,  poi      sversati   nel fiume Ofanto, e   deposita le  ceneri  rese inerti   nelle discariche regionali, oltre a emettere ovviamente sostanze nell’aria.  Non si può proprio  dire  che sia  una  presenza  innocua sul nostro territorio, e che lo lasci intatto così come lo trova.    L’adozione di un adeguato piano dei rifiuti renderebbe invece la regione del tutto indipendente dall’inceneritore, ed è quello che ci si aspetterebbe da una vera politica ambientale. I ritardi nell’adozione della raccolta differenziata come soluzione per lo smaltimento e la presenza dell’inceneritore sono strettamente collegati.  All’epoca della  realizzazione di Fenice l’opinione  corrente considerava   gli inceneritori salvatori dell’ambiente  nonché    validi mezzi di produzione di energia,  ma  i cittadini non erano   a conoscenza del reale impatto ambientale dell’impianto.    Il dibattito  che oggi alcune associazioni  tentano di aprire    sugli inceneritori    ruota     intorno alle tipologie dei contaminanti  che  rilasciano   e  alle soglie di contaminazione stabilite per legge,  al di sotto delle quali   essi  sono ancora  reputati    soluzioni ideali atte a  favorire  uno sviluppo sostenibile,  capaci di determinare un tipo di  inquinamento     tollerabile   quanto  quello di un grosso agglomerato industriale, ma che gli esperti ritengono comunque pericoloso per la salute.  Ma questo  è il punto:  fatte salve le leggi,  dovrebbero essere   i cittadini a decidere il grado di deterioramento dell’ambiente e di rischio per la propria salute  che  si è disposti ad accettare  in cambio del lavoro e dello sviluppo. E il  livello di inquinamento  che  la nostra politica è disposta ad accettare è  molto alto, se si è consentito all’inceneritore di funzionare per alcuni anni mentre  inquinava   una falda,  oltre i limiti di  legge.  Ma nel momento in cui  matureranno le condizioni per fare  a meno di Fenice, la politica  dovrebbe essere libera  di rinegoziare accordi    e autorizzazioni, perché questo suggerirebbero   i principi delle convenzioni internazionali,  invece  si preferisce diffondere la vulgata della sua     ineluttabile irrevocabilità.
Anche per quanto riguarda Fenice dunque   la Regione si è trovata   di fronte al dilemma tra lavoro e ambiente e ha fatto una scelta.  (Si dovrebbe  anche  riflettere su un tipo di  sviluppo che accetta di sottostare a forme di  ricatto, e chiedersi se esso  non diventi   insostenibile,  prima di tutto eticamente.)  Le   scelte tuttavia,  per quanto difficili,  si rivelano  responsabili  se tutto avviene  nella legalità, irresponsabili quando    alle spalle dei cittadini si permettono reati.  Da  intercettazioni telefoniche di colloqui tra imprenditori, utilizzate dagli inquirenti in  inchieste nel Lazio,  si evince che viene  portato nella nostra  regione anche un tipo   di rifiuto  industriale non autorizzato   perché  “ lì  nessuno controlla”. L’incenerimento di certi   rifiuti  produce diossina e furani  e altre sostanze pericolose. Nel caso fossero inceneriti rifiuti non autorizzati  nessuno se ne accorgerebbe,  in quanto non si pensa di ricercare nell’aria o nell’acqua  o nel latte degli animali sostanze prodotte da rifiuti che ufficialmente non ci sono. Ai cittadini  viene  dato a intendere  che tutto  questo sia compatibile con lo sviluppo.  La pervicace volontà di negare   l’evidenza degli  inquinamenti  e la pericolosità dell’inceneritore alla luce di una dettagliata letteratura che si preferisce ignorare,   è  una precisa  linea politica, ancora per molti versi incomprensibile. La stessa  che ha indotto  le aziende di monitoraggio ambientale  alla ricerca di un  precario equilibrio tra la necessità di mantenersi  buone relazioni politiche  e  l’ esigenza  morale e professionale  di dire  come stanno le cose.
Nel caos  delle notizie  contrastanti,  l’informazione  che i cittadini più attenti  tentano faticosamente di diffondere è bollata come  allarmismo,  un atteggiamento questo che rivela forse   il   timore di  ammettere voci dissonanti, elettoralmente controproducenti.
La politica, il mondo del sindacalismo,   dei rappresentanti di categoria e   gli imprenditori dell’energia   non hanno interesse  di fare opera di vera  divulgazione sull’ambiente.   Nella    programmazione regionale sull’utilizzo delle risorse energetiche per esempio,  si esprime  l’intenzione  di dare  grande diffusione alla biomassa,  ma il  programma non prevede di informare correttamente i cittadini   del   fatto che le centrali di quel tipo  rischiano di diventare  a tutti gli effetti   degli  inceneritori, nei cui forni potrà essere buttato di tutto.  Nemmeno si sa che i cementifici e altri tipi di impianti  industriali,  ai quali viene data l’autorizzazione di    bruciare  derivati della spazzatura, possono potenzialmente  trasformarsi in inceneritori fuori da ogni controllo,  alimentati  a basso prezzo con “carburanti” pericolosi   forniti dalle ecomafie.  I cittadini insomma  nel valutare i pro e i contro non sono  parte attiva  e subiscono  le  decisioni di una   classe politica  appartenente a un altro mondo e a un altro tempo, quello  in cui  il progresso  tecnologico non doveva tener conto di altre considerazioni, se non quella della sua illimitata espansione.  In tutta la regione si moltiplicano i siti inquinati per sversamento o depositi  illeciti, per mancate  bonifiche, per comportamenti irresponsabili e superficiali,  per abuso  di prodotti chimici, in uno  scenario che è difficile non definire allarmante e che rende  inadempiente la nostra regione rispetto a tutta una serie di  obiettivi europei  per l’ambiente  che vanno dalla   tutela della biodiversità,   alla difesa del  territorio nei confronti dei tanti inquinamenti, dell’erosione, degli smottamenti,  delle alluvioni fino al  contenimento dei gas serra. Ma è   la  sproporzione  tra danni e benefici che  rende sempre più rilevante  la questione ambientale in Basilicata.
Un esempio che dimostra  come la  politica  ma anche   addetti del settore   siano ormai incapaci di  curare  gli aspetti etici  e sociali dello sviluppo sostenibile : una decina di anni fa   la città di Potenza aderisce alla Carta di Allborg,  la carta delle  città europee sostenibili,  e si sente in dovere di  mettere in campo un   tentativo di stilare un’Agenda 21 della città, coinvolgendo le forze sociali ma  soprattutto le scuole. Poderoso tentativo quanto pleonastico, a tratti dannoso. Prima di tutto rivolgendosi  al mondo della scuola   travisa le ragioni di fondo dell’Agenda i cui obiettivi  mirerebbero principalmente  a facilitare soluzioni negoziate tra soggetti economici e cittadinanza, non  a  fare retorica ecologista degli spazi verdi presso i minori.  In secondo luogo l’Agenda mira a consolidare una prassi  di negoziazione, non è l’ ennesimo motivo per  dare fondo a denari,  allestendo  una tantum una bella  manifestazione. Una prova lampante di quanto questo volenteroso tentativo  sia stato  scorretto sul piano della trasmissione dei contenuti  è che  in uno dei test di feed back distribuiti ai malcapitati  alla domanda “ Qual è il sistema migliore per smaltire i rifiuti ?” le alternative proposte  erano   a) le discariche b) gli inceneritori. Gli intervistati  si dirottano sulla seconda,  evidentemente in coerenza con l’idea che  gli inceneritori sono amici dell’ambiente,   trasmessa loro durante i forum. La soluzione della raccolta differenziata non viene nemmeno indicata. Siccome   il ciclo integrato dei rifiuti di Potenza  non la  prevedeva     non si  è nemmeno osato    insinuarla    come risposta  alternativa adeguata, perché non si suggerisse    una qualche mancanza della  politica  ambientale  della città. Che però aveva firmato la Carta di Allborg. Sono passati dieci anni  e grazie alla precisa  volontà politica di mantenere gli   inceneritori,  di raccolta differenziata non si può ancora parlare, né a Potenza né nel resto della regione.
Unitamente  agli altri menzionati     atteggiamenti  contrari all’ambiente,  che spesso rasentano l’illegalità,   sono anche  questi ritardi a essere imbarazzanti,   per una regione che   non perde occasione di  propagandare a parole  il suo europeismo.

Maddalena Rotundo
30-10-2011

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